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pagina aggiornata il 08/12/2003 |
unità 2 - Età del Bronzo tra Oriente ed Occidente |
Liceo - Istituto Professionale
Corso di Storia - Età del Bronzo tra Oriente ed Occidente
Biennio
LA RICERCA E LE FONTI |
Approfondimenti, riferimenti bibliografici, esercizi |
L'epopea di Gilgamesh |
Il Codice di Hammurabi |
I miti di creazione |
Omero e la civiltà della vergogna |
Il ciclo dell'Epopea di Gilgamesh, leggendario re sumero di Uruk (Mesopotamia meridionale), si compone di varie parti. Il nucleo centrale del ciclo consiste di dodici canti di trecento righe l'uno, ma ci sono stati tramandati anche altri cinque poemi, complementari a quello principale.
La composizione dell'Epopea ebbe inizio nella terra di Sumer nel III millennio a.C. e venne ripresa e completata in quello seguente. Se ne conoscono versioni in lingua sumerica, accadica, ittita e hurrita. La redazione finale, quella più completa, risale al VII secolo a.C. e proviene dalla biblioteca dell'imperatore assiro Assurbanipal. Sembra che questo sovrano avesse inviato i suoi scribi a Babilonia, Uruk e Nippur, affinchè copiassero su tavolette il testo tradotto in accadico.
Il ciclo, pur nell'eterogeneità delle sue componenti, manifesta un forte carattere unitario. Il protagonista, Gilgamesh, emerge in ogni versione con la sua visione pessimistica della vita. L'eroe vive in modo lacerante il conflitto scatenato dalla duplicità della sua natura, per due terzi divina, poichè è figlio di una dea, e per un terzo mortale, in quanto è generato da un uomo.
Proclamerò al mondo le imprese di Gilgamesh, l'uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esusto, consunto dalla fatica; quando tornò si riposò, su una pietra l'intera storia incise.
All'inizio della vicenda Gilgamesh, a tutti superiore per la bellezza e la forza ereditate dalla madre, non trova nessuno che possa placare la sua inquietudine. I suoi sudditi, stanchi dell'attività frenetica del loro re, invocano l'aiuto degli dei.
Quando Anu ebbe udito le loro lamentele, gli dei esclamarono rivolti ad Aruru, dea della creazione: "Fosti tu a farlo, Aruru; crea ora il suo pari, uno che sia simile a lui quanto il suo riflesso, un altro lui, cuore tempestoso per cuore tempestoso". Nell'acqua, la dea, immerse le mani, trasse un pizzico di argilla, lo lasciò cadere nella landa deserta e fu creato il nobile Enkidu.
L'amicizia fra Gilgamesh ed Enkidu inizia con un incontro di lotta a Uruk. Enkidu rivela al compagno l'esistenza di una misteriosa "Foresta dei Cedri" e del suo mostruoso guardiano, Humbaba. I due si pongono in viaggio alla volta della Foresta e giungono ad ingaggiare battaglia con il suo custode.
Prima di arrivare alla porta della foresta varcarono sette montagne (...).
Così (Gilgamesh) abbattè il primo cedro; ne tagliarono i rami e li disposero ai piedi del monte. Al primo colpo Humbaba divampò, ma essi continuarono ad avanzare. Sette cedri abbatterono, ne tagliarono e legarono i rami e li disposero ai piedi del monte; e per sette volte Humbaba scatenò la sua gloria contro di loro. Quando si estinse la settima vampa, raggiunsero la sua tana (...). Al terzo colpo Humbaba cadde. Allora vi fu un gran subbuglio, poichè quello che avevano abbattuto era il custode della foresta.
Al ritorno in patria, Gilgamesh viene glorificato. Proprio in quel momento, la dea Ishtar lo nota e cerca di corteggiarlo. Tuttavia, l'eroe sa che la dea è solita trasformare i suoi amanti in animali: un uccello, un lupo, una talpa.
Disse:"Vieni a me Gilgamesh, sii il mio sposo. Concedimi il seme del tuo corpo, fa' che io sia la tua sposa e tu sarai mio marito (...)". Gilgamesh aprì la bocca e a Ishtar gloriosa rispose:"(...) E se tu e io diventassimo amanti, forse che non sarei trattato allo stesso modo di tutti questi altri da te amati una volta?"
La dea, infuriata per il rifiuto di Gilgamesh, invia su Uruk sette anni di siccità, incarnati nella figura del "Toro del Cielo".
Il Toro del Cielo schiumava alla bocca, col folto della coda lo sfiorava. Enkidu gridò a Gilgamesh: "Amico mio, ci siamo vantati che avremmo lasciato ai posteri un nome duraturo; conficca dunque la tua spada fra nuca e corna." Così Gilgamesh seguì il Toro, lo afferrò per il folto della coda, conficcò la spada fra nuca e corna e lo ammazzò.
Tremenda è la vendetta di Ishtar. Colpisce senza pietà i due amici. Enkidu sogna gli dei seduti a concilio.
"Poichè hanno ucciso il Toro del Cielo e poichè hanno ucciso Humbaba, che custodiva la Montagna dei Cedri, uno dei due dovrà morire."
(...) Uditemi, grandi di Uruk, Enkidu piango, l'amico mio, amaramente gemendo come donna in lutto piango mio fratello. (...) Che cos'è questo sonno che ora ti avvince? Perso sei nella tenebra e sentirmi non puoi.
Gilgamesh è rimasto solo. La consapevolezza dell'inevitabilità della morte, gli reca la più grande delle sconfitte. Inizia un viaggio alla ricerca dell'immortalità, che lo conduce ai confini della Terra. Nel Paese dell'Aurora, dove cammina il sole di primo mattino, l'eroe incontra Siduri, l'ostessa, che lo istruisce su come attraversare le acque della morte.
Così il battelliere Ursanabi condusse Gilgamesh da Utnapishtim che chiamano il Lontano, che vive a Dilmun nel luogo del transito del sole, a est della montagna. A lui solo fra tutti gli uomini gli dei avevano dato vita eterna. (...) "Oh, padre Utnapishtim, voglio interrogarti sui vivi e sui morti, come potrò trovare la vita che stò cercando?" Utnapishtim rispose: "Nulla permane. Costruiamo forse una casa che duri per sempre? Fin dai tempi antichi, nulla permane. Dormienti e morti, quanto sono simili: sono come morte dipinta."
La ricerca di Gilgamesh è rivolta all'immortalità terrena, alla gloria in terra simile a quella degli dei in cielo. Ma il destino del re non è diverso da quello degli altri uomini.
Quando il viaggio fu terminato arrivarono a Uruk, alla città delle forti mura. (...) Anche questo fu opera di Gilgamesh, del re che conosceva i Paesi del mondo. Egli era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; Un racconto ci portò dei giorni prima del diluvio. fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; e quando ritornò, su una pietra l'intera storia incise.
(Riduzione da "L'Epopea di Gilgamesh", a cura di N.K.Sanders, Adelphi, Milano, 1986).
Della raccolta di leggi emanate dal re babilonese Hammurabi (1.790-1.750 a.C.) ci sono pervenuti vari esemplari, tutti scritti in lingua accadica. Una copia è costituita dall'iscrizione su una stele litica, forse contenuta nel tempio del dio del sole e della giustizia Shamash a Babilonia; diverse altre riproduzioni sono invece impresse su tavolette.
Il codice di Hammurabi non è la prima manifestazione di un diritto scritto e regolare, ma solo la prima ed esser stata scoperta ed anche la più conosciuta e completa. Infatti, i sovrani della città-Stato sumerica di Ur avevano già fissato le norme di comportamento dei sudditi verso la fine del XXII secolo a.C..
Seguendo la concezione giuridica vigente ai nostri giorni, potremmo dire che le regole volute da Hammurabi riguardano materie appartenenti al diritto sia penale sia civile[1]. Il principio generale che seguono prevede che, a parità di reato commesso, il condannato sia colpito dalla giustizia in modo differenziato a seconda della condizione sociale: castighi più lievi per i potenti, più severi per i sottomessi.
Grazie a questa particolare impostazione, gli articoli ci offrono preziose informazioni sulla società babilonese, suddivisa in tre categorie: i liberi (amelu), alti funzionari dello Stato o sacerdoti del Tempio, dotati di autonomia economica; i semi-liberi (mushkenu), il cui sostentamento dipende dal Palazzo; gli schiavi (wardu), prigionieri di guerra e possesso del re.
Questi che seguono sono alcuni degli articoli raccolti dal codice.
1. Posto che un uomo accusi un altro uomo di omicidio, ma non convinca, l'accusatore sarà ucciso.
3. Posto che un uomo abbia reso falsa testimonianza in un processo, ma non abbia provata la parola detta, posto che quel processo sia un processo per la vita, quell'uomo sarà ucciso.
5. Posto che un giudice conduca un processo ed emetta una decisione e scriva la sentenza, posto che più tardi il suo processo si dimostri errato e quel giudice sia convinto di essere la causa dell'errore nel processo che ha condotto, egli dovrà pagare dodici volte la pena che era stabilita in quel processo, e si dovrà pubblicamente cacciarlo dal suo seggio di giudice, e non dovrà tornarvi per sedere di nuovo come giudice in un processo.
8. Posto che un amelu rubi un bue o una pecora o un asino o un maiale o un'imbarcazione, posto che la cosa appartenga al Tempio o al Palazzo, egli dovrà dare trenta volte tanto, se appartiene ad un mushkenu dovrà dare dieci volte tanto. Se il ladro non ha nulla da dare, dovrà essere ucciso.
53. Posto che un amelu sia pigro nel tenere in buon ordine la propria diga e non la tenga in ordine, e in conseguenza si produca una fenditura nella sua diga, e le campagne del villaggio siano inondate d'acqua, colui nella cui diga si è prodotta la fenditura risarcirà il frumento che ha fatto perdere.
54. Posto che un amelu non possa risarcire il frumento, egli dovrà essere venduto per denaro insieme con i suoi beni e gli agricoltori, il cui frumento è stato distrutto dall'inondazione, divideranno.
135. Posto che un amelu sia fatto prigioniero di guerra e nella sua casa non vi sia di che sostentarsi, e sua moglie vada in un'altra casa e partorisca figli, posto che più tardi il marito ritorni e rientri in patria, questa donna dovrà ritornare al marito, ma i figli dovranno seguire il loro padre.
138. Posto che un amelu ripudi la moglie che non gli ha partorito figli, egli dovrà darle l'importo del dono nuziale e restituirle la dote che ha portato con sé dalla casa del padre e poi mandarla via.
148. Posto che un amelu prenda moglie e lei si ammali ed egli si sia proposto di prenderne un'altra, la prenderà senza ripudiare la moglie malata; lei abiterà in una casa costruita da lui e sarà mantenuta finché vivrà.
196. Posto che un amelu cavi un occhio a un altro amelu, gli si caverà un occhio.
198. Posto che un amelu cavi un occhio a un mushkenu (...) pagherà un siclo d'argento.
199. Posto che un amelu cavi un occhio a un wardu di un altro amelu (...) pagherà metà del suo prezzo.
203. Posto che il figlio di un amelu percuota la guancia del figlio di un altro amelu, pagherà un siclo d'argento.
205. Posto che il wardu di un amelu percuota la guancia del figlio di un amelu, gli si taglierà un orecchio.
218. Posto che un medico pratichi un'incisione con un coltello di rame a un amelu e il paziente muoia, al medico si taglierà una mano.
219. Posto che un medico pratichi un'incisione con un coltello di rame a un wardu di un mushkenu e lo faccia morire, risarcirà il mushkenu con un altro wardu.
229. Posto che un costruttore abbia edificato una casa a un amelu, ma non abbia fatto un'opera solida e la casa che edificò sia crollata ed abbia ucciso il padrone della casa, il costruttore sarà ucciso.
230. Posto che essa abbia ucciso il figlio del padrone della casa, sarà ucciso il figlio di questo costruttore.
231. Posto che essa abbia ucciso un wardu del padrone della casa, egli darà al padrone della casa schiavo per schiavo.
Spiegare l'esistenza del mondo non fu il principale problema religioso che si posero i popoli antichi: più importante risultò, semmai, comprendere le modalità del rapporto uomo-dio, da cui si credeva dipendere in modo diretto la prosperità universale. Se la risposta a quest'ultimo interrogativo risedette nei riti religiosi, la soluzione della domanda sull'origine del mondo venne affidata ai miti. Fra tutti i miti, quelli che riguardano il tema dei primordi, costituiscono poi una categoria a parte. Ogni popolo, ogni cultura hanno offerto in proposito il proprio originale contributo.
I racconti della creazione appaiono densi di significato profondo e permeati di emozioni e sentimenti. Essi si occupano dei problemi fondamentali dell'esistenza, del senso ultimo non solo della vita umana, ma dell'intero cosmo. Spesso, la nascita dell'universo costituisce l'avvenimento per eccellenza, perché rappresenta il solo mutamento reale: l'emergere del mondo. Dopo quell'istanza, posseggono significato solo i ciclici cambiamenti impliciti nei ritmi della vita: la rotazione degli astri, il succedersi delle stagioni, le fasi lunari, i periodi della vegetazione...
Questa periodicità dei ritmi cosmici viene percepita come la perfezione istituita al tempo della "prima volta". Il disordine pare implicare un mutamento inutile e, di conseguenza, nocivo nella successione esemplare di cambiamenti ordinati. Allo stesso modo, anche l'ordine sociale ed i rapporti politici esistenti nel gruppo umano finiscono con il risultare aspetti immutabili dell'ordine cosmico, di origine divina.
I miti di creazione non concepiscono quasi mai la generazione dal nulla. Si tratti del caos, dell'aria primordiale, del mare originario, la materia appare già presente. Il problema consiste piuttosto nell'ordinare, nel passare dal confuso al definito, secondo un processo che si configura come separazione di un tutto indistinto e come diversificazione di opposti aspetti (luce\tenebra, terra\cielo...).
Secondo Mircea Eliade, attraverso i miti si può indagare "l'immagine che l'uomo delle società arcaiche si è fatto di se stesso e del posto che occupa nel cosmo. La differenza principale tra l'uomo delle società arcaiche e tradizionali e l'uomo delle società moderne (...) consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il cosmo ed i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente con la storia. Certamente, anche per l'uomo delle società arcaiche il cosmo ha una sua "storia", se non altro perché il cosmo è la creazione degli dei e si ritiene che sia stato organizzato da Esseri soprannaturali (...). Ma questa 'storia' del cosmo e della società umana è una 'storia sacra', conservata e trasmessa dai miti; anzi è una 'storia' indefinitamente ripetibile, nel senso che i miti servono da modelli a cerimonie che riattualizzano periodicamente gli avvenimenti grandiosi accaduti agli inizi del tempo. I miti conservano e trasmettono i modelli esemplari di tutte le attività responsabili degli uomini; in virtù dell'imitazione rituale di questi modelli paradigmatici (che contemplano tutte le varianti possibili n.d.r.), rivelati agli uomini nel tempo mitico, il cosmo e la società sono periodicamente rigenerati. (...) Non è difficile comprendere perché una tale ideologia renda impossibile il sorgere di ciò che oggi noi chiamiamo una 'coscienza storica'." ("Il mito dell'eterno ritorno", Roma 1968).
Agli albori del XX secolo a.C., nella Mesopotamia meridionale i Sumeri produssero una propria versione della nascita del cosmo.
La dea-madre Nammu (il mare primordiale) generò An (l'infinità del cielo) e Ki (la terra). La coppia era perennemente unita come un'unica montagna cosmica, la cui base, innalzandosi sopra l'abisso delle acque, costituiva il fondo della terra e la cui sommità era l'apice celeste. An e Ki generarono Enlil, dio dell'aria, e fu proprio questi a separarli, consentendo la venuta al mondo di tutti le altre divinità. Dopo la scissione, An portò il cielo verso l'alto, mentre Enlil trascinò la madre verso il basso.
Nella città celeste, gli dei vivevano come fanno gli uomini sulla terra, coltivando i cereali. Tuttavia un giorno, per stanchezza, i lavori iniziarono ad essere trascurati ed il raccolto venne meno. Gli dei si lamentarono e Nammu si mise a cercare il figlio Enki, che considerava il più abile di tutti. Enki giaceva, immerso in un sonno profondo. Nammu lo svegliò per chiedergli di alleviare le pene degli dei. Gli disse: "Figlio mio, alzati dal letto e compi una grande opera di saggezza. Genera dei servi che svolgano il lavoro degli dei." Enki, alzandosi, le rispose: "Madre, farò come tu vuoi".
"Allunga una mano", disse alla madre "e prendi una manciata d'argilla dal fondo della terra, proprio sopra la superficie dell'abisso d'acqua. Poi, dagli la forma di un cuore. Io creerò abili artigiani che proseguiranno il lavoro. Quindi dai forma agli arti. Insieme con te lavoreranno Ninmah, la mia sposa, ed altre otto dee. Tu darai il nome al neonato. Ninmah fisserà in lui l'immagine degli dei. Ed egli sarà l'uomo."
Tutti si misero all'opera. Ninmah collaborava con Nammu: con l'aiuto delle otto dee, l'argilla fu presa e separata come un bambino che si divide dalla madre. Gli abili artigiani le conferirono la giusta consistenza e Nammu modellò il cuore e poi il corpo e gli arti. Enki volle fare una festa per la sua sposa e per sua madre, cui invitò tutti gli dei; questi compresero subito che era stata compiuta una grande e magnifica impresa. Tutti lo elogiarono caldamente per quella invenzione di una razza di esseri che avrebbe lavorato nelle fattorie, da cui gli dei avrebbero ricavato pingui benefici, ricchezze ed animali da sacrifici.
Ogni dio avrebbe avuto i propri terreni, con un fattore che avrebbe svolto sulla terra il ruolo di Enlil in cielo. La sua abitazione sarebbe stata il simbolo, nel mondo, della montagna di Enlil. E la sua sposa sarebbe stata un simbolo della dea Ninlil, il pianeta Venere. Tutto sulla terra sarebbe stato come in cielo. Come nel palazzo celeste, nel palazzo-tempio terrestre sarebbero stati presenti un portiere, un maggiordomo, un consigliere, un servo personale, un ciambellano, un cocchiere, un araldo, un tamburino, sette ancelle e guardie di palazzo. E, al di là delle mura della città-Tempio, nei campi e nei villaggi, ci sarebbero stati un giudice, un ispettore, un guardiacaccia, un sorvegliante e numerosi servi e contadini.
Fu una grande festa, e sia Enki che sua moglie furono ben presto ubriachi.
I loro cuori si riscaldarono e la dea si rivolse al dio:
"Come sceglierò corpi buoni e corpi cattivi?
Li sceglierò così come il cuore mi detta".
Enki, pieno di comprensione, rispose:
"Tu farai i corpi cattivi, e io troverò loro il posto adatto".
Ninmah prese l'argilla e modellò sei poveri individui, ognuno dei quali aveva gravi deficienze: una donna sterile, un essere che non era maschio né femmina... Ma, per ciascuno di loro, Enki trovò un posto adatto:
Enki, dopo aver visto la donna sterile,
decretò il suo destino: sarebbe vissuta in un harem.
Enki, dopo aver visto l'essere che non era maschio né femmina,
decretò il suo destino: avrebbe servito il re...
Enki, eccitato dal proprio successo, chiese alla dea di scambiarsi i ruoli: lui avrebbe creato i corpi e lei avrebbe scelto i posti. Egli fece una creatura che aveva fegato e cuore dolenti, occhi malati, mani tremanti e non aveva alcuna intelligenza. Quindi disse alla dea:
"Per tutte le tue creature, io ho trovato subito un posto;
ora trova tu per questo essere un posto in cui possa vivere."
Ninmah si avvicinò alla creatura e le parlò, ma questa era incapace di rispondere. Le offrì del pane, ma non era in grado di prenderlo. Non poteva stare seduta, né in piedi, e nemmeno piegare le ginocchia. Così la dea non riuscì a trovarle alcuna collocazione. La malattia e la follia avevano messo in imbarazzo la dea, che cominciò a gridare:
"La mia città è distrutta, la mia casa è abbattuta;
i miei bambini sono stati catturati.
Io sono stata esiliata dalla montagna degli dei:
non posso vincerti!
Ma tu non risederai più né in cielo né in terra".
Così, Enki venne esiliato negli abissi, di cui divenne il signore.
(Riduzione da H.Uhlig, "I sumeri", Milano 1979).
Verso la metà del II millennio a.C., in Egitto, i sacerdoti di Eliopolis ricostruirono a loro volta le origini del mondo. Atum (il Nulla) dimorava in un caos acquatico, che conteneva tutti i germi maschili e femminili di tutti i mondi futuri. Penetrava incessantemente le acque e non poteva distaccarsene, poiché era una sola cosa con esse.
Desiderando compiere un'opera creativa, Atum cominciò a mettere ordine in tutte le cose. Unicamente attraverso la sua attività mentale, chiamò ad esistere quattro coppie di dei: Nun e Nunet (la materia creativa e feconda), He e Hehet (l'eternità creativa ed il principio del tempo), Tek e Teket (le tenebre dello spazio), Nenu e Nenuet (l'assenza di movimento, l'immobilità).
Su di un tumulo, gli otto esseri primigeni depositarono un uovo da cui uscì il sole, Ra, che ordinò il caos trasformandolo in un mondo abitabile.
Ra creò con un atto di masturbazione.
Egli si prese il fallo in mano, per eccitare il desiderio.
E nacquero i due gemelli Shu e Tefnut.
Shu era il "vuoto" (di sesso maschile), l'aria luminosa fra la terra ed il cielo; e Tefnut, era sua sorella. Da Shu e Tefnut vennero Geb, la terra (maschile), e Nut, il cielo (femminile). Geb e Nut erano uniti in eterno, sacro amplesso, ma Shu li separò. Così poterono generare due coppie di figli: Osiri e Seth, maschi, ed Iside e Nefti, femmine. Questi nove dei furono riuniti in un'Enneade (gruppo di nove).
Osiri, sovrano benefico e giusto, sposo della sorella Iside, venne ucciso dal tempestoso e violento fratello Seth. Iside ne ritrovò il corpo, che Seth riuscì ugualmente a fare a pezzi. Ricomposto da Iside, Osiri poté vivere una seconda vita, stavolta ultraterrena. Insieme Osiri ed Iside generarono Horo, rappresentato con il corpo umano e la testa di falco. Per sfuggire alla furia di Seth, Iside ed Horo si nascosero negli inestricabili ammassi di papiri del Delta; quando il bambino divenne adulto, presentò all'Enneade il proprio caso, riuscendo a riconquistare il trono che era stato di suo padre e che Seth gli aveva usurpato.
Horo, incarnandosi nel faraone, governerà perennemente l'Egitto. Osiri, invece, reggerà il mondo dei morti.
(Riduzione da J.Campbell, "Le maschere di dio. Mitologia orientale", Milano 1991).
La Bibbia ci tramanda la visione ebraica a proposito dell'origine del cosmo nel libro del Pentateuco (Genesi, 1,2). La fonte scritta risale presumibilmente all'inizio del I millennio a.C..
In principio Javhé creò il cielo e la terra. La terra era una massa informe e vuota e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Javhé aleggiava sulla superficie delle acque. E Javhé disse: "E la luce sia". E la luce fu. Javhé vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre, e chiamò giorno la luce e chiamò notte le tenebre. E fu sera e fu mattino: il primo giorno.
E Javhé disse: ci sia un firmamento in mezzo alle acque che divida le acque dalle acque. E Javhé fece il firmamento, separando le acque che sono sotto il firmamento e le acque che sono sotto il firmamento. E così fu. E Javhé chiamò cielo il firmamento. E fu sera e fu mattino: il secondo giorno.
E Javhé disse: "Si raccolgano in un luogo solo le acque che sono sotto il cielo e appaia l'asciutto". E così fu. E Javhé chiamò terra l'asciutto e chiamò mare la massa delle acque. E Javhé vide che ciò era buono. E Javhé disse: "Produca la terra germogli, erbe che fanno semente secondo la loro specie ed alberi fruttiferi aventi il proprio seme secondo la loro specie. E Javhé vide che ciò era buono. E fu sera e fu mattino: il terzo giorno.
E Javhé disse: "Vi siano delle luci nel firmamento del cielo per distinguere il giorno e la notte e siano come segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni, e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra. E così fu. E Javhé fece due grandi luci: la luce maggiore per reggere il giorno e la luce minore per reggere la notte, ed inoltre le stelle. E Javhé le collocò nel firmamento del cielo per illuminare la terra, reggere il giorno e la notte e separare la luce dalle tenebre. E Javhé vide che ciò era buono. E fu sera e fu mattino: il quarto giorno.
E Javhé disse: "Brulichino le acque di un brulichio di esseri viventi e volatili volino sopra la terra, dinanzi al firmamento del cielo". E Javhé creò i grandi cetacei e tutti gli esseri vivi guizzanti di cui brulicarono le acque, secondo la loro specie e tutti i volatili alati secondo la loro specie. E Javhé vide che ciò era buono, e Javhé li benedisse dicendo: "Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; si moltiplichino pure i volatili della terra." E fu sera e fu mattino: il quinto giorno.
E Javhé disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: animali domestici, rettili e fiere della terra, secondo la loro specie". E Javhé fece le fiere della terra secondo la loro specie, gli animali domestici secondo la loro specie e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Javhé vide che tutto ciò era buono. E Javhé disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia potere sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra. E Javhé creò l'uomo a sua immagine. A immagine di Javhé lo creò: maschio e femmina lo creò. E Javhé li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e abbiate potere sui pesci del mare, sui volatili del cielo e su ogni animale che striscia sopra la terra". E Javhé aggiunse: "Ecco, io vi do ogni erba producente semente che è sulla superficie di tutta la terra e ogni albero che ha frutto di albero producente seme: vi servirà da cibo. Ad ogni animale della terra, ad ogni volatile del cielo, a tutto quanto striscia sopra la terra ed ha anima vivente do per cibo il verde dell'erba." E così fu. Javhé vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. E fu sera e fu mattino: il sesto giorno.
Così furono compiuti il cielo, la terra e tutte le loro schiere. Avendo dunque Javhé compiuto nel settimo giorno l'opera che aveva fatto, nel settimo giorno si riposò da ogni sua opera intrapresa, e benedì il settimo giorno e lo rese sacro, perché in esso si era riposato in ogni sua opera che Javhé nel farla aveva creato. Queste sono le origini del cielo e della terra quando furono creati.
Fra le numerose varianti a proposito della nascita del mondo elaborate nei testi sacri dagli Arya dell'India, ne abbiamo scelte due, risalenti rispettivamente all'inizio e alla metà del I millennio a.C..
Allora non c'era il non-essere; non c'era l'atmosfera, nè il cielo che è al di sopra. Che cosa si muoveva? Dove? Sotto la protezione di che? Che cos'era l'acqua inscandagliabile, profonda?
Allora non c'era la morte, né l'immortalità; non c'era il contrassegno della notte e del giorno. Senza alito respirava per forza quell'Uno; oltre di lui non c'era nient'altro.
Tenebra ricoperta da tenebra era in principio; tutto questo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale che era serrato dal vuoto generò se stesso mediante la potenza del proprio calore.
Il desiderio nel principio sopravvenne a lui, il che fu il primo seme della mente. I saggi trovarono la connessione dell'essere nel non-essere cercando con riflessione nel loro cuore.
Trasversale fu tesa la corda: vi fu un sopra, vi fu un sotto? Vi erano fecondatori, vi erano potenze: sotto lo stimolo, sopra l'appagamento.
Chi veramente sa, chi può qui spiegare donde è originata, donde questa creazione? Gli dei sono al di qua della creazione di questo; perciò chi sa dove essa è avvenuta?
Dove è avvenuta questa creazione, se l'ha prodotta o no, colui che di questo è il sorvegliatore nel cielo supremo, egli certo lo sa, seppure non lo sa. (Rigveda, X, 129).
In principio questo universo non era che il Sé sotto forma di uomo cosmico. Esso si guardò intorno e non vide che se stesso, perciò pronunciò la sua prima frase: "Questi sono io!", da cui venne il concetto di "io". Ecco perché, anche ora, quando si chiama qualcuno, questi risponde subito: "Sono io!", dichiarando solo in un secondo momento il suo nome.
Quindi egli ebbe paura. Ecco perché chi è solo ha paura. Ma pensò: "Se non c'è nessuno oltre a me, perché devo avere paura?". Allora la sua paura sparì. Infatti, di che cosa avrebbe dovuto avere paura? Si ha paura solo di un altro.
Tuttavia non provava piacere, perché chi è solo non prova piacere, e desiderò un secondo. Egli era grande come una donna ed un uomo abbracciati. Perciò questo Sé si divise in due parti: e così vi fu un uomo ed una donna. Ecco perché questo corpo è simile alla metà di un pisello. Ed ecco perché lo spazio vuoto viene riempito da una donna.
Il maschio si congiunse con la femmina, e da ciò nacque la razza umana. Ma la donna pensò: "Come mai egli, che mi ha prodotta, si è unito a me? Bene, voglio nascondermi!". Essa divenne una vacca, lui si fece toro e si unì con lei: e da ciò nacquero i bovini. Essa divenne giumenta, lui uno stallone; essa asina, lui asino e si unì con lei: e così nacquero gli animali con gli zoccoli. Essa divenne una capra, lui un caprone; essa divenne pecora e lui ariete e si unì con lei: e così nacquero le capre e le pecore. In tal modo egli produsse tutte le cose che vanno a coppie, fino alle formiche. Quindi pensò: "In verità io sono la creazione, perché ho generato tutto ciò". E da qui nacque il concetto di "creazione".
Chiunque comprenda ciò, diventa egli stesso creatore di questa creazione. (Upanishad 1.4.1-5).
OMERO E LA CIVILTA' DELLA VERGOGNA.
I brani qui riportati sono tratti dall'Iliade, mentre gli Achei assediano la città di Troia, i commenti da un saggio del filologo E.R. Dodds, "I Greci e l'irrazionale".
A seguito di una pestilenza scatenata da Apollo, Agamennone è costretto a liberare una giovane prigioniera, figlia di un sacerdote del dio, ma s'appropria di una schiava di Achille per ripagarsi del danno. Scoppia una grave lite nel campo degli Achei. Offeso nell'onore, Achille abbandona il campo di battaglia e vi fa ritorno solo dopo la morte del suo amico Patroclo. Viene convocata l'Assemblea per riportare la giustizia tra gli eroi Greci.
Allora andò lungo la riva del mare Achille glorioso
gridando paurosamente, chiamò gli eroi Achei.
E anche quelli che prima restavano in mezzo alle navi,
o timonieri, che delle navi avevano la barra,
o nelle navi erano dispensieri, distributori di pane,
anch'essi allora andarono all'assemblea, perché Achille
era riapparso, che a lungo era mancato dalla dura battaglia.
(... )Fra loro parlò il sire d'eroi Agamennone
(...) Io dunque al Pelide mi rivolgerò: ma voi altri
comprendetemi, o Argivi, capite bene la parola ciascuno.
Nel passo che segue, Agamennone spiega le ragioni del gesto che ha portato alla contesa, facendo appello all'infatuazione divina (Ate) che lo avrebbe spinto contro la sua volontà a ledere l'onore del compagno d'armi. Il divino è costantemente presente nell'agire umano, contribuendo a seminare disordine e a ripristinare la giustizia. E.R.Dodds commenta dicendo che le parole di Agamennone non hanno valenza giustificatoria, sono condivise da Achille e dallo stesso Omero. L'Ate è il disordine emotivo arrecato dagli dei, che confonde e annebbia le menti. La Moira, le Erinni e Zeus (Le Moire sono dee del destino, le Erinni, della vendetta) agiscono sulla psiche e rappresentano una giustizia cosmica, indipendente dalla volontà degli uomini.
Spesso questo discorso mi facevano gli Argivi
e mi biasimavano; pure non io son colpevole
ma Zeus e la Moira e le Erinni che nella nebbia cammina;
essi nell'assemblea gettarono contro di me stolto errore
quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille.
Ma che potevo fare? I numi tutto compiscono
Ate è la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare,
funesta; essa ha piedi molli, perciò non sul suolo
si muove, ma tra le teste degli uomini avanza,
(...) Ma dal momento che ho errato, Zeus m'ha tolto la mente,
voglio fare l'ammenda, dare doni infiniti.
Il codice d'onore per cui un re rispondeva in assemblea di un torto arrecato ad un eroe, presupponeva che avesse timore che le azioni potessero essere soggette a biasimo collettivo. Per questa ragione, quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni conosciute, il suo atto non è suo, gli è stato imposto. (...) E' più probabile che questo avvenga quando le azioni sono fonte di vergogna." (...) Dico vergogna non colpa, perché alcuni antropologi americani ci hanno recentemente insegnato a distinguere le "civiltà di vergogna" dalle "civiltà di colpa", e la società di Omero è sicuramente una civiltà di vergogna. Il bene supremo dell'uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della timé, la pubblica stima (...) La più potente forza morale nota all'uomo omerico non è il timor di dio, è il rispetto dell'opinione pubblica (...) Tutto quel che espone l'uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi simili, tutto quel che gli fa "perdere la faccia", è sentito come insopportabile.
Omero, Iliade, Torino, Einaudi, 1963, Libro XIX, a cura di R. Calzecchi Onesti, vv 40-46, 78-91, 123.
E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp.1-31.
[1]Diritto penale e civile. Mentre il diritto penale riguarda i comportamenti considerati pericolosi per i singoli e per la società, quello civile disciplina questioni d'interesse economico e patrimoniale.
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