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pagina aggiornata il 01/10/2003

unità 1 - Dalle origini dell'uomo alla rivoluzione agricola

Liceo - Istituto Professionale

Corso di Storia - Dalle origini dell'uomo alla rivoluzione agricola

Biennio

LE FONTI E LA RICERCA

Approfondimenti, riferimenti bibliografici, esercizi

Strategie della crescita demografica
Gli esseri umani sono nati per parlare?
Le basi biologiche dell'altruismo
BIBLIOGRAFIA

STRATEGIE DELLA CRESCITA DEMOGRAFICA.

 Il milione di abitanti del Paleolitico, i 10 del Neolitico, i 100 dell'Età del bronzo, il miliardo della rivoluzione industriale o i 10 miliardi che non mancheremo di raggiungere nel prossimo secolo cadenzano una crescita che, certamente, non è solo demografica. Ma già questi dati ci dicono che l'evoluzione demografica non è stata uniforme nel tempo; essa si è sviluppata attraverso cicli di espansione, ristagno e perfino riduzione, la cui interpretazione, anche per i periodi storici non avvolti nelle nebbie, non è agevole. Occorre, infatti, dare risposta a un quesito tanto elementare nell'apparenza quanto complesso nella sostanza: perché noi siamo oggi 5 miliardi, e non molti di più o molti di meno, 100 miliardi o 100 milioni? E perché la crescita demografica, dalla preistoria ai nostri giorni ha seguito un determinato itinerario, dei tanti possibili? Domande difficili, ma non improponibili, perché il percorso compiuto dall'umanità -quello numerico, beninteso- se non obbligato, è stato perlomeno costretto da numerosi vincoli e argini che hanno fissato le grandi linee dell'itinerario seguito. Vincoli e argini che possiamo in prima approssimazione ricondurre ai condizionamenti biologici e a quelli ambientali. I primi sono connessi con le leggi di mortalità e riproduttività dalle quali dipende la velocità dell'accrescimento demografico; i secondi determinano le forze di attrito che tali leggi incontrano regolando ulteriormente la velocità della crescita. Inoltre, condizionamenti biologici e ambientali si influenzano reciprocamente e non sono quindi indipendenti gli uni dagli altri.

Ogni collettività vivente sviluppa particolari strategie di sopravvivenza e riproduzione che si traducono in ritmi di crescita, potenziali ed effettivi, di velocità variabile. Una breve analisi di queste strategie può costituire la migliore introduzione alla specificità della specie umana. I biologi hanno identificato due grandi categorie di strategie vitali, chiamate di tipo R e di tipo K che, in realtà, rappresentano semplificazioni di un continuo. Gli insetti, i pesci, gli uccelli, alcuni piccoli mammiferi, adottano strategie del tipo R: vivono, essenzialmente, in ambienti assai instabili e si avvantaggiano nei periodi favorevoli (annuali, stagionali) per riprodursi con grandissima rapidità, anche se le probabilità di sopravvivenza della discendenza sono scarsissime. è però proprio in conseguenza e per causa della grande instabilità ambientale che conviene affidarsi al grande numero, perché "la vita è una lotteria ed è quindi razionale acquistare molti biglietti". Gli organismi a strategia R hanno ampi cicli con fasi di rapidissima ascesa e di rapidissima discesa.

Assai diversa è la strategia degli organismi di tipo K (i mammiferi, soprattutto se di dimensioni medie e grandi, alcuni tipi di uccelli) che colonizzano ambienti relativamente stabili, ancorché affollati di competitori, di predatori e di parassiti. Gli organismi di tipo K sono indotti dalla pressione ambientale e selettiva a competere per sopravvivere; ciò richiede, soprattutto, forti investimenti parentali di tempo ed energia sulla discendenza per il suo allevamento, e questo è possibile solo se il numero dei discendenti è ridotto.

Le strategie R e K sono associate, pertanto, con organismi con caratteristiche assai differenziate. Le prime si adattano a organismi di piccole dimensioni, corta durata di vita, ridotto intervallo tra generazioni, breve gestazione, brevi intervalli tra le nascite ed elevata numerosità delle cucciolate. Le strategie di tipo K sono invece associate con organismi di grandi dimensioni, lunga durata di vita, lunghi intervalli tra generazioni e tra nascite, parti singoli e lungamente intervallati.

(...) Si può anche dimostrare che il tasso di accrescimento delle varie specie (limitiamoci ai mammiferi) varia, essenzialmente, in funzione inversa della durata della generazione e, quindi, delle dimensioni corporee. E, sia pure a un livello di generalizzazione macroscopico, la minore capacità di crescita numerica degli organismi più grandi può ben mettersi in relazione con la loro minore vulnerabilità alle fluttuazioni ambientali connessa con le stesse maggiori dimensioni corporee. Proprio perché per essi la vita non è una lotteria -e cioè le loro chances di sopravvivere sono elevate- non hanno bisogno di affidare la perpetuazione della specie a una elevata riproduttività. Quest'ultima, poi, sarebbe nociva a quegli investimenti di cura e protezione della prole necessari a renderla meno vulnerabile e per garantirne la bassa mortalità. (...)

La nostra specie segue, ovviamente, una strategia K; essa ha avuto successo nel controllare l'ambiente e le sue fluttuazioni e investe moltissimo nell'allevamento della prole. Due principi ci saranno particolarmente utili nell'affrontare gli argomenti delle prossime pagine. Il primo riguarda la rilevanza della relazione tra popolazione e ambiente, che per la specie umana va inteso nel senso più ampio possibile del termine, e cioè come quell'insieme di condizioni di vita (ambiente fisico, clima, disponibilità di nutrimento ecc.) che determinano la sopravvivenza. Il secondo principio attiene alla stretta relazione esistente tra riproduttività e mortalità, nel senso che la seconda è funzione dell'intensità degli investimenti parentali, e che questi tendono a essere in relazione inversa con l'intensità della riproduttività.

 M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Torino, Loescher, 1989, pp.2-5.

GLI ESSERI UMANI SONO NATI PER PARLARE?

 La lingua è la più grande invenzione dell'uomo, sempre che di invenzione si tratti. Noam Chomsky, docente al Massachusetts Institute of Technology, ritiene che non sia tale. Egli ritiene che la lingua sia innata nel bambino come lo è il volo nel piccolo di una rondine e che i bambini non debbano tanto imparare la lingua quanto svilupparla in risposta a uno stimolo. "Pochissimi si occupano dell'origine del linguaggio, in quanto lo considerano un problema insolubile" dice Chomsky.

In realtà, di questo problema si era parlato così a lungo e con così pochi risultati fino al 1866 che la Société Linguistique di Parigi ne interdisse la discussione. L'ordine però fu violato ben prima che arrivasse Chomsky, il che portò alla formulazione di numerose teorie.

- La teoria onomatopeica: le prime parole si sarebbero formate nel tentativo di imitare suoni come per esempio bau-bau per il cane, cucù per il cuculo e uuuh per il soffiare del vento.

- La teoria dell'espressione emotiva: le prime parole sarebbero state interiezioni che esprimevano stati d'animo come puà, bah e uff.

- La teoria ritualistica di gruppo: nel momento in cui molte persone coordinavano i loro sforzi per svolgere un lavoro, si faceva forse ricorso, per dare il ritmo al gruppo, a esortazioni ritualizzate simili al nostro oh-issah.

- La teoria melodica: alcuni suoni potrebbero essere nati per gioco come le nenie dei bambini o il "tubare" degli innamorati .

- La teoria della mimica boccale: i primi parlanti usavano forse le labbra per indicare, creando spostamenti collegati di suoni e muscoli che distinguevano il vicino dal lontano. Si possono così interpretare fenomeni come quelli delle parole italiane questo e quello e di quelle francesi voici e voilà.

Ciò, naturalmente, elude del tutto il problema del perché si sia sviluppato il linguaggio. Derek Bickerton, delI'Università di Hawaii, ipotizza nel suo recente libro Language and Species che il linguaggio possa essere un sottoprodotto dell'evoluzione del cervello. Le strutture nervose, che consentivano ai primi ominidi di ricavare per astrazione dalle loro percezioni una rappresentazione del mondo, miglioravano la loro capacità di adattamento. Queste strutture potrebbero averli messi poi in condizione di attribuire un significato a gesti e suoni, producendo un linguaggio.

ll linguaggio primitivo sarebbe stato ricco di parole dotate di significato, ma carente di elementi grammaticali. In quanto evolutasi molto prima della sintassi, quella forma di comunicazione -sue tracce- potrebbe forse essere individuata nei gesti delle scimmie a cui siano stati insegnati gli elementi del linguaggio dei segni. Bickerton ritiene che anche i "bambini selvaggi", rimasti isolati negli anni cruciali dell'infanzia -in cui di norma si sviluppa la sintassi- costituirebbero un esempio di quello che potrebbe essere stato il linguaggio primitivo. I cosiddetti "bambini lupo", trovati in zone selvagge dell'India agli inizi di questo secolo, si dimostrarono capaci di imparare molte cose, ma non andarono mai al di là dell'abilità verbale di un bambino di due anni.

ll salto dal linguaggio primitivo a quello sintattico è quanto mai difficile da spiegare. Bickerton avanza l'ipotesi che "un singolo evento genetico potrebbe realmente essere stato sufficiente a trasformare il protolinguaggio in un linguaggio dotato di sintassi". Egli conclude notando che tutti i prerequisiti per il linguaggio -cervello più grande, miglioramento dell'apparato per l'emissione del suoni, nuove connessioni nervose- comportano l'instaurarsi di modificazioni anatomiche. (...)

Chomsky e altri sostengono che l'abilità linguistica dell'uomo potrebbe essere comparsa improvvisamente nel momento in cui qualche evento genetico operò una saldatura tra molteplici caratteri evolutisi per altri scopi. Uno di questi caratteri sarebbe stato il controllo cosciente della produzione dei suoni. I cani abbaiano quando gliene viene l'impulso; gli scimpanzé cercano di frenare i richiami inopportuni, anche se con scarso successo. Gll uomini, invece, mentono spudoratamente.

Un ulteriore adattamento è consistito probabilmente nella capacità di decodificare I segnali vocali. Nessun telegrafista, per quanto bravo, ha mai interpretato il codice Morse alla velocità con cui un bambino, anche solo attento a metà, capisce il significato di un dialogo.

Le modulazioni stesse sono molto ricche, in parte per la forma inconsueta dell'apparato vocale umano. Philip Lieberman, della Brown University, osserva che ci• rende gli esseri umani gli unici mammiferi incapaci di deglutire e respirare contemporaneamente. Non si tratta di un inconveniente da poco, visto che comporta il rischio di soffocare mangiando; un rischio che è per• compensato da una migliore articolazione dell'apparato vocale. Stando alla ricostruzione fatta da Lieberman sulla base dei fossili, I'uomo di Neandertal aveva un apparato vocale "scimmiesco". Se questo è vero, le sue capacità di articolazione dovevano essere limitate e questo spiegherebbe perché si estinse mentre Homo sapiens sopravvisse.

 Philip E. Ross, Glottologi a confronto, in "Le Scienze", 274, Giugno 1991, p. 97.

LE BASI BIOLOGICHE DELL'ALTRUISMO.

 Il comportamento altruistico può essere definito come un comportamento che avvantaggia altri individui che non il protagonista, con conseguente danno a quest'ultimo.

Questo tipo di comportamento è osservabile in specie diverse di animali. (...) Fra i Primati non esiste un'ampia varietà che va dalla cooperazione nell'educazione dei piccoli nel branco, alle grida di allarme in caso di avvistamento di predatori, alla difesa del gruppo, alla spartizione del cibo reperito, alla dedizione della propria esistenza in favore di cospecifici. (...) Nell'uomo, l'atto altruistico, fino al sacrificio eroico è considerato un comportamento eticamente positivo. (...)

Ma come può essersi affermato e fissato geneticamente questo comportamento, che sembra contraddire uno dei fondamenti della selezione naturale, perché dannoso all'individuo che lo esegue? (...)

La soluzione del problema sta nello spostare il concetto di selezione individuale a quello di selezione di gruppo (...). Si tratta allora di verificare quale possa essere la convenienza di atteggiamenti che possono momentaneamente danneggiare il singolo ma favorire il gruppo e, di conseguenza, rendere più probabile la trasmissione dei geni.(n.d.r).

Una spiegazione si deve a R. L. Trives, che ha sviluppato l'idea di un altruismo capace di evolversi soltanto attraverso il suo carattere di reciprocità. (...)

Facciamo un esempio. Un uomo sta affogando ed un altro si getta in acqua per salvarlo. Se il primo ha 50% di probabilità di morire, se non aiutato, mentre il secondo ha solo il 5% di probabilità di morire nel salvataggio e l'uomo che sta per affogare viene salvato, e se in un'altra occasione l'uomo salvato ha l'opportunità di restituire il favore con lo stesso rischio per entrambi, ognuno dei due scambia un 50% di probabilità di morire con un 10%, con evidente guadagno. è facile rendersi conto che una popolazione, utilizzando una serie di obbligazioni di questo tipo, aumenta il vantaggio della idoneità genetica (possibilità di trasmettere i propri geni ai figli, perpetuando la specie. n.d.r.) dei suoi membri in maniera sostanziale, e quindi migliora le proprie possibilità di sopravvivenza rispetto altre popolazioni.

Secondo Trives, la diffusione dell'altruismo reciproco si basa su tre fattori principali: 1.un prolungamento della vita media, che accresce le probabilità per due individui di imbattersi in condizioni favorevoli al manifestarsi di questo comportamento; 2.un basso tasso di dispersione, perlomeno in una parte della loro vita, che aumenta la probabilità che si ripetano interazioni fra gli individui (è il caso delle convivenze stabili, n.d.r.); 3.un'alta interdipendenza fra i membri della popolazione (ad es. per difendersi contro i predatori), che moltiplica le situazioni potenzialmente altruistiche.

L'uomo (...) rappresenta la specie ideale per eccellenza. L'uomo infatti è il solo Primate che abbia praticato la caccia collettiva in maniera sistematica durante le fasi più cruciali della sua evoluzione culturale, e che ha inoltre una vita preriproduttiva e postriproduttiva più lunga di ogni altro animale, un tasso di dispersione più basso, soprattutto durante la sua lunga infanzia, e dimostra, in un habitat pericoloso e differenziato, un più alto grado di interdipendenza. Presenta infine una organizzazione sociale unica, molto favorevole all'altruismo reciproco per la sua eccezionale complessità, ed ha anche sviluppato tratti psicologici e culturali che possono consolidarla e potenziarla.

 B. Chiarelli, Origine della socialità e della cultura umana, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 217-221.

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